LA CITTA' DEI RICORDI

di Elso Simone Serpentini

D'Annunzio a duello

 

  

In una corrispondenza da Castellammare Adriatico pubblicata dal giornale “Gli Abruzzi” del 27 settembre 1885, Gabriele D’Annunzio, allora ventiduenne, già sposato con Maria Hardouin, duchessa di Gallese, che già gli aveva dato un figlio, Mario, credette di ravvisare alcune frasi per lui ingiuriose e decise di inviare dal direttore del giornale, Carlo Magnico, due suoi amici, Edoardo Scarfoglio e Francesco Paolo Michetti per chiedergli conto delle sue affermazioni e per invitarlo a ritrattarle.

     Scarfoglio e Michetti si incontrarono due giorni dopo, il 29 settembre, a Pescara, con Modesto Oliva e Sante F. Nodari, ai quali Magnico aveva dato l’incarico di abboccarsi con loro, quali inviati di D’Annunzio. Si sentirono dire che il direttore de “Gli Abruzzi” non aveva alcuna ritrattazione da fare e che si considerava a disposizione di chi si riteneva ingiuriato nel caso che volesse sfidarlo a duello.

     Durante l’abboccamento furono effettuati altri tentativi di addivenire ad una soluzione amichevole e così si decise di risolvere la questione “sul terreno”. Scarfoglio e Michetti, in qualità di padrini di D’Annunzio, proposero la sciabola, senza esclusione di colpi e col guanto di sala d’armi. Oliva e Nodari, in qualità di padrini di Magnico - avocando a sé il diritto della scelta delle armi - proposero la pistola. Non essendo stato raggiunto un accordo, la conclusione fu rinviata al mattino del giorno successivo.

     Questa volta i padrini di D’Annunzio accettarono il duello alla pistola e invitarono Nodari e Oliva a proporre il tipo di arma. Nodari e Oliva indicarono un revolver di 9 millimetri, da sparare una sola volta, voltandosi, alla distanza di venticinque passi. Scarfoglio e Michetti proposero in alternativa un colpo di revolver alle condizioni volute dagli avversari e, in caso di non ferite, la prosecuzione con la sciabola senza esclusione di colpi. Ma i padrini di Magnico di nuovo respinsero il duello alla sciabola, insistendo per la sola pistola e proponendo, nel caso di non ferite, di portare il numero di colpi a tre, diminuendo ogni volta la distanza.

   I padrini di D’Annunzio respinsero anche quest’ultima proposta, spiegando che non sembrava il caso di procedere ad un duello a condizioni così gravi, pur rigettando l’ipotesi di un duello a condizioni troppo lievi. Come ultima soluzione, proposero il duello alla sciabola puro e semplice, con colpi di punta, senza colpi di testa.

 

    I padrini di Magnico respinsero anche quest’ultima proposta, dichiarando che non potevano accettare un duello alla sciabola che non prevedesse colpi di testa, così dopo ancora lunghe trattative si addivenne ad un accordo. Il duello sarebbe stato alla sciabola, senza guanto di sala d’armi, con colpi di punta e di testa. I quattro padrini sottoscrissero il verbale di scontro, fissandone il luogo, un campo vicino alla Stazione ferroviaria di Chieti, e l’ora, le due del pomeriggio di quello stesso giorno.

     All’ora convenuta, i due sfidanti si trovarono l’uno di fronte all’altro. Prima di procedere alla formalità d’uso, i padrini rammentarono le condizioni convenute, dopo di che lo scontro ebbe inizio. Al secondo assalto D’Annunzio rimase colpito alla testa e subito il duello cessò. Immediatamente i padrini di D’Annunzio, Scarfoglio e Michetti, si rivolsero a quelli del Magnico, Nodari e Oliva, e domandarono se il loro assistito chiedesse solennemente scusa a D’Annunzio per aver mancato alle condizioni del duello e cioè di aver inferto un colpo alla testa, anziché alla figura. Magnico, si disse dolente dell’accaduto e dichiarò che il colpo inferto si doveva attribuire al caso e alla propria imperizia nel maneggio delle armi, circostanza ammessa dai padrini  di ambedue le parti.

     Tutti convennero, e la cosa fu riportata sul verbale di scontro, che D’Annunzio era venuto a trovarsi in terreno più basso, toccatogli in sorte, e che, essendo di statura più bassa di Magnico, si trovava in condizione più sfavorevole. Questo aveva certamente influito sul disgraziato accidente, imputabile al mero caso. I padrini di Magnico si dissero assai dolenti dell’accaduto e si sentirono obbligati a manifestare la loro ammirazione per il nobile contegno di D’Annunzio. Fu dato atto sempre nel verbale che la ferita riportata da D’Annunzio era lunga cinque centimetri e si trovava nella regione fronto-parietale destra, recidente i “comuni integumenti” fino all’osso, giudicata guaribile in cinque giorni. Sul verbale venne riportato che la vertenza si intendeva esaurita con piena soddisfazione del sig. D’Annunzio.  

      Entrambi i verbali di scontro furono successivamente pubblicati su “Gli Abruzzi”, nel numero  del 4 ottobre 1885, con la precisazione che al termine Gabriele D’Annunzio e Carlo Magnico si erano lealmente strette le destre e che lo stesso avevano fatto i rispettivi padrini. All’epoca Scarfoglio, uno dei due padrini di D’Annunzio, aveva 25 anni e aveva sposato da qualche mese (a marzo) Matilde Serao. e forse non immaginava che, in seguito, del “vate” sarebbe stato non padrino, ma sfidante. A Natale del 1885 uscì il primo numero del giornale fondato da Scarfoglio e da sua moglie, “Il Corriere di Roma”, ma l’anno successivo il giornale concorrente, “La Tribuna”, annunciò che avrebbe offerto ai propri abbonati per l'anno successivo una raccolta di poesie di D’Annunzio intitolata “Isotta Guttadauro". In risposta, Scarfoglio, che non poteva permettersi, a causa delle scarse condizioni finanziarie, una identica offerta, annunciò sul suo giornale, sarcasticamente, l’uscita di un poema "eroi-comico" intitolato "Risaotta al pomidauro", una parodia dell'opera dannunziana, firmata “Raphaele Panunzio”, che effettivamente fu pubblicato in cinque puntate a partire dal 16 ottobre 1886. Successivamente anche sulla rubrica mondana che la Serao aveva sul giornale del marito comparve un secondo poemetto parodistico ("Risaottina allo zafferano"). D'Annunzio, al quale la moglie Maria aveva dato un secondo figlio, Gabriele Maria, il 10 aprile 1886, rispose con una lettera pubblicata il 27 ottobre su "La Tribuna". Sentendosi offeso, Scarfoglio lo sfidò a duello. Anche questa volta D’Annunzio ebbe la peggio, rimanendo ferito al terzo assalto di sciabola.

     Più tardi Edoardo Scarfoglio si riappacificò con Gabriele D'Annunzio e tornò ad essere suo amico. Dopo la separazione da Matilde Serao, partì insieme con lui per una crociera nel Pireo e a Costantinopoli. Di quel duello con l’amico avrebbe scritto, con accenti commossi, quaranta anni dopo, nel “Libro segreto”.

     Ma non furono solo questi i duelli di D’Annunzio. Dopo il matrimonio riparatore con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, abbandonata al terzo figlio, e dopo l’appassionata relazione con Barbara Leoni, “il vate” si legò ad una principessa siciliana, già separata e madre di quattro figli. Il marito tradito sfidò D’annunzio a duello e lo trascinò in tribunale, facendolo condannare a cinque mesi di reclusione, pena mai scontata per amnistia. Si calcola che complessivamente Gabriele D’Annunzio abbia collezionato dieci duelli e cinquanta sfide.                     

 

   

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