Faccia cotta
Vincenzo Di Pietro, fu Sabatino, anni 60, bracciante.
Sua moglie era Maria Di Battista, fu Migliorato, anni 50, abitante a
Teramo a Porta Romana. Il loro matrimonio, sempre punteggiato da
liti, alla fine andò a pezzi e si separarono, anche se non
legalmente. Lei se ne andò a vivere insieme con il figlio 28enne
Giuseppe e con sua nuora, Elvira Scacchiotti. Quello che fece
decidere Maria Di Battista a lasciare il marito fu la relazione che
l’uomo aveva contratto con “Faccia cotta”.
“Faccia cotta” era una donna, piuttosto
chiacchierata, che abitava anch’ella dalle parti di Porta Romana e
si arrangiava prestando servizio ora in questa ora in quella casa.
Vincenzo Di Pietro se ne era invaghito e la sua relazione con lei
andò sulla bocca di tutti. Vincenzo trascorreva la maggior parte
delle sue giornate a lavorare nell’orto di Santoro, dalla parti di
Via San Giuseppe e lì “Faccia cotta” andava a trovarlo, appartandosi
con lui in un rustico, nel quale venivano conservati gli attrezzi da
lavoro.
Alle prime ombre della sera del 18
ottobre 1920, accadde in Via San Giuseppe, sulla pubblica via, un
episodio sul quale il più popolare quartiere di Teramo, quello di
Porta Romana, si divertì a lungo a spettegolare. Accadde che la
moglie di Vincenzo Di Pietro, Maria Di Battista, il figlio Giuseppe
e la nuora Elvira si appostarono nei pressi dell’orto Santoro per
cogliere sul fatto “Faccia cotta” mentre si recava dal suo amante e,
alla presenza dello stesso Vincenzo, la giovane fu aggredita e
percossa. Lei si difese come una tigre e i colpi di bastone
volarono. Sia “Faccia cotta” che Maria Di Battista rimasero ferite e
non lievemente, mentre, così si disse, Vincenzo Di Pietro non
intervenne né a difesa di sua moglie né a difesa della sua amante.
Fu la denuncia che “Faccia cotta” presentò contro Maria Di Battista
che diede ancora più notorietà all’episodio.
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Quando, davanti al Pretore
di Teramo Alfonso Capriolo, “Faccia cotta” confermò il contenuto
della sua querela, spiegò che era stata aggredita dai tre invasati,
Maria Di Battista, suo figlio e sua nuora, senza che lei avesse
alcuna colpa, perché la sua relazione con Vincenzo Di Pietro era
terminata da un pezzo e lei si si era recata quella sera all’orto
Santoro soltanto per portare un fiasco di vino che il padrone dlel’orto,
Vincenzo D’Ignazio, le aveva chiesto di andargli a comprare.
“Faccia cotta” si qualificò: “Mi chiamo Francesca D’Antonio, fu
Andrea e di Costanza Marconetti, ho 29 anni, abito a Porta Romana.”
Fece i nomi di Vincenzo D’Ignazio, di sua moglie Olimpia, del
pensionato Vincenzo Quartapelle, della domestica Lina Esposito, di
Vincenzo Pistilli, come testi che avrebbero potuto testimoniare
sulla verità dei fatti. Esibì anche un certificato medico
rilasciatole dal Dott. Lorenzo Paris, il quale attestava che le
ferite da lei riportate erano così profonde da arrivare fino al
periostio e che avevano prodotto una forte perdita di sangue. Il
Pretore si avvalse anche del rapporto del Delegato di P.S. Cosmo
Minervini, il quale aveva provveduto ad una puntuale ricostruzione
dei fatti. Anche “Faccia cotta” aveva colpito con un bastone la
moglie del suo amante, procurandole delle lesioni, che erano state
giudicate dal Dott. Olivieri guaribili in 15 giorni. L’orto Santoro
si chiamava così perché si chiamava Santoro il padre, defunto, di
Vincenzo D’Ignazio, che ora ne era il proprietario. Quasi tutti i
protagonisti dell’episodio avevano qualche precedente penale, di
poco conto: qualche furtarello e qualche lesione personale.
L’istruttoria del Pretore Capriolo ebbe inizio il 18 gennaio
1921, con l’escussione dei testi. “Ero nella vaccheria di Vincenzo
Di Giosaffatte – dichiarò Vincenzo Quartapelle – quando venne,
piangendo “Faccia cotta”, dicendo che era stata aggredita da tre
persone, due donne e un uomo, le quali, dopo averle rotto un fiasco
di vino che aveva in mano, l’avevano percossa”. Giuseppe Ercolani
era di servizio come guardia daziaria nella garritta che stava sotto
a San Giuseppe. Aveva visto passare “Faccia cotta” con in mano un
fiasco di vino, diretta verso la latteria di D’Ignazio. Dopo era
ripassata con il fiasco pieno diretta verso Porta Reale, poi l’aveva
vista ripassare diretta nuovamente verso casa D’Ignazio e subito
dopo aveva sentito il rumore di un fiasco rotto e delle urla. Poco
dopo aveva visto venire dalla parte di San Giuseppe Maria Di
Battista, tutta insanguinata, che si lamentava e diceva di essere
stata colpita a bastonate. Accanto a lei c’erano il figlio e sua
nuora. Olimpia D'Ignazio aveva visto Maria Di Battista, il figlio e
la nuora mentre percuotevano “Faccia cotta” con i pugni e con un
bastone. Vicino c’era Vincenzo Di Pietro, che non era intervenuto.
Il figlio di Maria Di Battista dichiarò che la madre, dopo essere
stata colpita, era tutta insanguinata e si lamentava: “Corri, figlio
mio ! Corri, ché mi hanno ucciso”.
Quando la interrogò il giudice istruttore Antonio Vigorita,
“Faccia cotta” ribadì che la sua relazione con il Di Pietro era
terminata da un pezzo. Il suo difensore, Avv. Armando Di Girolamo,
insistette molto su questo punto. “Faccia cotta” era andata alla
latteria del D’Ignazio a comperare il latte ed era stata aggredita.
Anche Vincenzo Di Pietro mise di mezzo un avvocato, Antonio Mariani,
e dichiarò anche lui che la sua relazione con “Faccia cotta” era
terminata da un pezzo. Dovette mettere un avvocato perché qualche
teste aveva dichiarato che anche lui aveva colpito la moglie,
ferendola. La moglie, da parte sua, dichiarò che, dopo i primi colpi
di bastone che le aveva dato l’odiata rivale, non aveva visto più
niente e non sapeva se anche il marito l’avesse colpita.
“Faccia cotta” accettò di rimettere la sua denuncia davanti al
Pretore Capriolo la mattina dell’8 giugno 1921. Il P.M chiese che
nei confronti di Maria Di Battista fosse dichiarato il non farsi
luogo a procedere per estinzione dell’azione penale e il 30 giugno
il Giudice Istruttore fu dello stesso avviso e ordinò il non luogo a
procedere. Ma rimaneva in piedi l’azione penale nei confronti di
Vincenzo Di Pietro. Aveva colpito anche lui la moglie ? Quando la
giustizia cercò di raggiungerlo nel novembre del 1921 con un atto di
citazione, non riuscì a trovarlo e venne a sapere che egli si era
trasferito a Giulianova. Quando non fu trovato nemmeno a Giulianova
si venne a sapere che si era trasferito nuovamente a Teramo e che
abitava in Via Ciotti, nel Palazzo Irelli. Ma era malato di febbri
reumatiche; non poteva recarsi in pretura a rispondere al Pretore.
La causa fu rinviata. Il processo contro di lui fu
celebrato nell’aula del Tribunale di Teramo il 14 giugno 1922 e il
suo difensore fu l’Avv. Alcide Neroni. L’imputato ribadì di non
avere colpito la moglie. La moglie confermò di non poter dire se
anche il marito l’avesse colpita. Il P.M. chiese per Vincenzo Di
Pietro una condanna a 14 mesi di reclusione. Quando il Presidente
del Tribunale Antonio Luce lesse la sentenza, Vincenzo Di Pietro,
che si aspettava di essere condannato, rimase sorpreso
nell’apprendere che era stato assolto per insufficienza di prove.
Nel quartiere di Porta Romana si continuava a dire che “Faccia
cotta” ogni tanto andava ancora a trovarlo nella sua casa di Via
Ciotti.
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